Che il nostro ineffabile attuale presidente del Consiglio dei Ministri sia solito raccontare un po’ di favole non è certo una novità, così come non è proprio nuovo sapere che tante delle sue favole si tramutano in incubi per la stragrande maggioranza della popolazione italiana: basti pensare al Jobs Act, presentato come la miracolosa ricetta con la quale, in cambio della perdita delle garanzie dell’art. 18, l’occupazione ed il reddito della classe lavoratrice sarebbero volati alle stelle. La perdita delle garanzie è restata; occupazione e reddito, invece di crescere, sono in caduta libera.
Qui però racconteremo la storia di un’altra favola tramutatasi in incubo, che, dopo qualche fugace apparizione mediatica (soprattutto sui social network, a dir la verità), è passata rapidamente nel dimenticatoio ma che, ciononostante, rivela la logica d’azione di questo governo. Stiamo parlando del famoso “bonus di 80 euro” (le virgolette sono d’obbligo, capirete in seguito perché) che il governo Renzi ai suoi inizi elargì a tutti coloro al di sotto di una certa soglia di reddito.
Il cosiddetto bonus di 80 euro venne introdotto in via temporanea (maggio-dicembre 2014), come dicevamo, agli inizi del governo Renzi con l’art. 1 del decreto legge del 24 aprile 2015 n. 66. che così recitava:
Art. 1 (Riduzione del cuneo fiscale per lavoratori dipendenti e assimilati)
1. In attesa dell’intervento normativo strutturale da attuare con la legge di stabilita’ per l’anno 2015 e mediante l’utilizzo della dotazione del fondo di cui all’articolo 50, comma 6, al fine di ridurre nell’immediato la pressione fiscale e contributiva sul lavoro e nella prospettiva di una complessiva revisione del prelievo finalizzata alla riduzione strutturale del cuneo fiscale, finanziata con una riduzione e riqualificazione strutturale e selettiva della spesa pubblica, all’articolo 13 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, dopo il comma 1 e’ inserito il seguente: “1-bis. Qualora l’imposta lorda determinata sui redditi di cui agli articoli 49, con esclusione di quelli indicati nel comma 2, lettera a), e 50, comma 1, lettere a), b), c), c-bis), d), h-bis) e l), sia di importo superiore a quello della detrazione spettante ai sensi del comma 1, e’ riconosciuto un credito, che non concorre alla formazione del reddito, di importo pari: 1) a 640 euro, se il reddito complessivo non e’ superiore a 24.000 euro; 2) a 640 euro, se il reddito complessivo e’ superiore a 24.000 euro ma non a 26.000 euro. Il credito spetta per la parte corrispondente al rapporto tra l’importo di 26.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e l’importo di 2.000 euro.”.
Il “bonus” è stato poi confermato e reso “strutturale” con la Legge di Stabilità 2015 (art. 1, commi 12, 13 e 15 della Legge n. 190/2014):
12. Il comma 1-bis dell’articolo 13 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e’ sostituito dal seguente: «1-bis. Qualora l’imposta lorda determinata sui redditi di cui agli articoli 49, con esclusione di quelli indicati nel comma 2, lettera a), e 50, comma 1, lettere a), b), c), c-bis), d), h-bis) e l), sia di importo superiore a quello della detrazione spettante ai sensi del comma 1, compete un credito rapportato al periodo di lavoro nell’anno, che non concorre alla formazione del reddito, di importo pari a: 1) 960 euro, se il reddito complessivo non e’ superiore a 24.000 euro; 2) 960 euro, se il reddito complessivo e’ superiore a 24.000 euro ma non a 26.000 euro. Il credito spetta per la parte corrispondente al rapporto tra l’importo di 26.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e l’importo di 2.000 euro».
13. Ai fini della determinazione del reddito complessivo di cui all’articolo 13, comma 1-bis, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, come sostituito dal comma 12 del presente articolo, non si applicano le disposizioni di cui all’articolo 3, comma 1, della legge 30 dicembre 2010, n. 238, all’articolo 17, comma 1, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, e all’articolo 44, comma 1, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, come modificato dal comma 14 del presente articolo.
14. All’articolo 44 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122,sono apportate le seguenti modificazioni: a) al comma 1, le parole: «ed entro i cinque anni solari successivi» sono sostituite dalle seguenti: «ed entro i sette anni solari successivi»; b) al comma 3, le parole: «nei due periodi d’imposta successivi» sono sostituite dalle seguenti: «nei tre periodi d’imposta
successivi».
15. Il credito eventualmente spettante ai sensi dell’articolo 13, comma 1-bis, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, come sostituito dal comma 12 del presente articolo, e’ riconosciuto in via automatica dai sostituti d’imposta di cui agli articoli 23 e 29 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, sugli emolumenti corrisposti in ciascun periodo di paga, rapportandolo al periodo stesso. Le somme erogate ai sensi del comma 12 sono recuperate dal sostituto d’imposta mediante l’istituto della compensazione di cui all’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, e successive modificazioni. Gli enti pubblici e le amministrazioni dello Stato possono recuperare le somme erogate ai sensi del comma 12 anche mediante riduzione dei versamenti delle ritenute e, per l’eventuale eccedenza, dei contributi previdenziali. In quest’ultimo caso l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e gli altri enti gestori di forme di previdenza obbligatoria interessati recuperano i contributi non versati alle gestioni previdenziali rivalendosi sulle ritenute da versare mensilmente all’erario. Con riferimento alla riduzione dei versamenti dei contributi previdenziali conseguente all’applicazione di quanto previsto dal presente comma, restano in ogni caso ferme le aliquote di computo delle prestazioni. L’importo del credito riconosciuto e’ indicato nella certificazione unica dei redditi di lavoro dipendente e assimilati (CUD).
In questo modo circa undici milioni e duecentomila di italiani hanno ricevuto un’ottantina di euro in più al mese. Di questi, ben pochi hanno letto con attenzione i testi di legge su riportati: di conseguenza hanno preso alla lettera il termine “bonus”. Dato che l’uso comune del termine in campo stipendiale fa riferimento (cito dal Sabatini Coletti) ad un “incentivo economico che premia la qualità del lavoro svolto, elargito da un’azienda ai dirigenti in aggiunta allo stipendio-base”, avevano letto il tutto in quest’ottica: una gratifica in aggiunta allo stipendio base. In realtà si trattava non di un bonus, ma di una riduzione delle imposte IRPEF, elargita a chi non superava i 24.000/26.000 euro lordi annui, ma ne guadagnava almeno 8.001 (da 8.000 in giù questa imposta non esiste); il tutto, poi, con la specifica che la riduzione in questione si applicava in considerazione del reddito complessivo di una persona e non sulla singola busta paga.
Cos’è accaduto? Poiché solo a fine anno è possibile conoscere con certezza il reddito complessivo di un lavoratore, il “bonus” è stato, a norma dell’art. 15, riconosciuto in via automatica un po’ a tutti i potenziali aventi diritto, la maggior parte dei quali non aveva alcuna idea di rischiare di doverli restituire a fine anno. Dopo le dichiarazioni dei redditi, infatti, un milione e quattrocentomila contribuenti (uno su otto!) hanno dovuto restituire in parte o del tutto gli 80 euro ricevuti in più in busta paga dal proprio datore di lavoro.
In alcuni casi, si tratta di lavoratori che hanno percepito redditi aggiuntivi, superando la soglia prevista di 24.000/26.000 euro: solo al momento della dichiarazione dei redditi è stato possibile sapere con certezza se si aveva diritto o meno al bonus: in caso negativo, il bonus 80 euro doveva essere restituito. Quasi trecentocinquantamila lavoratori, però, rientrano nella categoria opposta: per svariati motivi non hanno raggiunto gli 8.001 euro e perciò, pur avendo un reddito molto basso e conseguentemente presumibili difficoltà economiche, si trovano a dover restituire una parte di un già misero reddito.
Il governo si è difeso asserendo che, in realtà, i lavoratori in questione non fanno altro che “pagare in ritardo le tasse dovute”. Il problema, però, è a due livelli.
Innanzitutto, sarebbe stato semplicissimo evitare un coccolone a quasi un milione e mezzo di italiani, convinti dalla terminologia usata di avere circa un migliaio di euro annui in più stabilmente in busta paga ed hanno, presumibilmente, regolato la loro esistenza in base a questo reputato dato di fatto: bastava fare un conguaglio a fine anno, così che il lavoratore avrebbe avuto la certezza del proprio reddito effettivo. Il Governo ha, però, preferito adottare un provvedimento “spettacolare” (si era a ridosso delle elezioni europee ed all’inizio del proprio mandato con il desiderio di ottimizzare il consenso).
Altro punto. Di là del fatto che il governo alla fine grazi, comunque solo per quest’anno, almeno chi si è trovato a scendere sotto gli 8.000 euro di reddito come timidamente accennato da figure minori della compagine di governo, la questione mostra in pieno il sadismo sociale mostrato dal potere: per motivi di pura propaganda, ha messo in difficoltà più o meno gravi l’esistenza di (considerando il dato di una media familiare di 2,5 componenti per famiglia) circa tre milioni e mezzo di individui. Il che restituisce in pieno l’idea di come il potere politico ami le classi subalterne.
Enrico Voccia